Hanno lanciato la prima catena di pizzerie che scommette da un lato su un prodotto che coniuga ingredienti di alta qualità a leggerezza e digeribilità dell’impasto e, dall’altro, su locali belli, accoglienti e su un ambiente allegro e friendly. Colonna sonora compresa. Ma non dite a Matteo e Salvatore Aloe, fratelli calabresi trasferitisi a Bologna per studiare economia e fondatori di Berberè, che le loro sono pizze “gourmet”, vagamente elitarie perché un
po’ più care rispetto alla media. Niente affatto: vi risponderanno che il loro format propone pizze senza ispirazioni regionali, frutto di anni di studio e sperimentazioni per renderle (finalmente) a prova di digestione, semplicemente molto buone e impreziosite con alcune eccellenze scovate in mezza Italia.
Oggi Berberè è una scommessa vinta, la catena conta nove pizzerie in Italia e due a Londra, tutte a gestione diretta, e rappresenta la riprova che la qualità vera è replicabile, a patto di accettare alcune condizioni. Di questo e molto altro ci parla Salvatore, 39 anni, il fratello maggiore (Matteo ne ha 32), che incontriamo in un palazzo d’epoca nel cuore universitario del capoluogo emiliano, dove hanno sede l’headquarter della società e il locale aperto nel 2013, dopo la pizzeria “pilota” di Castel Maggiore (Bo).
Perché avete pensato a un format di pizzeria che puntasse su un’offerta di alta qualità?
Io venivo da settori diversi, in particolare, un’azienda che sviluppava immobili per il retail, mentre Matteo ha sempre avuto la passione per la ristorazione, coltivata lavorando durante gli studi in alcune tra le migliori cucine di Bologna, dove ha potuto accrescere la sua competenza sulle materie prime e sui processi. Fino allo stage post laurea al ristorante milanese Joia dello chef stellato Pietro Leemann. A un certo punto abbiamo realizzato che a fine anni ’90/inizio 2000 nessuno proponeva pizze di qualità: poche le eccezioni, come Simone Padoan che esplorava l’alta cucina, e Gabriele Bonci, maestro della pizza al taglio alla romana. Il livello del settore si andava appiattendo, a dispetto della popolarità internazionale di un prodotto il cui nome non ha bisogno di essere tradotto. Da qui l’idea di provare a invertire la rotta…
Tutto nasce dunque l’8 dicembre 2010 a Castel Maggiore…
Abbiamo scelto di aprire poco fuori Bologna perché si era concretizzata un’opportunità interessante anche dal punto di vista economico, che ci avrebbe evitato di sostenere i costi del centro storico, permettendoci di concentrare l’investimento sull’allestimento del locale. L’inizio non è stato semplice. Proponevamo 12 pizze tagliate in otto spicchi, per favorire la convivialità: qualcuno si alzava e se ne andava non appena realizzava che nel menu molte pizze classiche non erano comprese. E non c’era neppure la Coca-Cola. In realtà, per due anni ci siamo dedicati allo studio delle materie prime, la farina innanzitutto, e dei processi produttivi, a cominciare dalla lievitazione, croce e delizia di ogni pizzaiolo perché, se si utilizzano lieviti aggressivi o tempi corti, può generare problemi di digestione.
Quale soluzione avete adottato per garantire alla vostra pizza leggerezza e digeribilità?
Il problema sta nei lieviti che innescano la maturazione dell’impasto, oltre che ne giusto dosaggio dei tempi e della temperatura. La verità è che in molte pizzerie si inizia la fermentazione dell’impasto, la si blocca subito e si riavvia in un secondo momento. Se a ciò aggiungiamo cotture spesso troppo rapide, comprendiamo bene che possono sopraggiungere diversi problemi: gonfiore, sete, cattiva digestione. E così abbiamo deciso di riprendere l’uso esclusivo del lievito madre vivo (meno del 2% nell’impasto), che consente una doppia fermentazione. Lievitiamo gli impasti per 24 ore a una temperatura controllata di 22-24 gradi (l’ideale temperatura ambiente), che consente l’attivazione dei lactobacilli preziosi per la digestione. Da allora in tutti i locali ci sono due lieviti (uno per il pranzo e l’altro per la cena), rinfrescati, controllati e tenuti vivi, e si impasta quotidianamente. Il risultato è una pizza leggera, croccante fuori e morbida dentro.
Pizza di qualità significa selezione di materie prime di alto profilo, come perseguite questo obiettivo?
Molto importante si è rivelato, non solo dal punto di vista finanziario, l’ingresso nella compagine societaria di Alce Nero, che dal 2015 supporta il nostro sviluppo. Loro ci forniscono la farina tipo 1 per le pizze (per impasti con cereali diversi dal grano usiamo quelle di Mulino Marino), l’olio d’oliva e i pomodori. Grazie a una fruttuosa partnership con Slow Food, inoltre, utilizziamo una serie di Presìdi di assoluta eccellenza: i capperi di Salina sono di Salvatore d’Amico, la mozzarella vaccina è di Querceta di Putignano, quella di bufala è di Nicola Cecere di Cancello (Ce) e Arnone (Ce). In sintesi, oggi l’80% degli ingredienti è biologico, con una percentuale vicina al 100% per il food. A ciò va aggiunto che l’ingresso in società di Alce Nero ci ha permesso di ottimizzare la gestione logistica, che rischiava di appesantire la gestione.
E per quanto riguarda il beverage e i dessert?
Come detto in apertura, non abbiamo volutamente soft drink “mainstream”, ai quali preferiamo brand locali come Galvanina o internazionali dai progetti incredibili come la Karma Cola, di cui siamo i primi importatori italiani. Naturalmente proponiamo una selezione di birre artigianali (molto apprezzate a Milano) e di vini e bollicine naturali (grande consenso a Firenze), una scelta precisa che ci accompagna sin dall’apertura del primo Berberè. A Torino piacciono invece tantissimo i dolci del maestro pasticciere Luigi Biasetto. Anche con bevande e dolci, insomma, puntiamo a proporci fieramente come una pizzeria dove la gente ha diritto di godersi un ottimo prodotto in allegria, trascorrere piacevolmente il suo tempo, stare bene quando va a casa. E magari tornerà a trovarci. Non a caso il nostro target è decisamente trasversale per ceto e per età.
Quanto si spende in media nelle vostre pizzerie?
Il nostro scontrino medio si attesta sui 15,60 euro. Dipende dalla pizza scelta: si va dai 5,90 euro della marinara ai 12,80 euro di quella con prosciutto cotto di Mora Romagnola Zivieri. Il nostro impegno è comunicare che quell’euro in più dipende dal nostro lavoro, dalle materie prime, dai processi di lavorazione.
Quanto è importante la formazione?
Direi che è un vero e proprio pilastro portante, indispensabile per formare pizzaioli capaci di realizzare ogni giorno l’impasto migliore. Alcuni sono cresciuti con noi, ma nei tempi giusti: l’head chef di Torino è stato per tre anni secondo in cucina qui a Bologna. Al di là della passione, infatti, pensiamo che siano molto più importanti la dedizione e la professionalità. In questo senso, sono molto preziose le nove persone della sede centrale, che lavorano a supporto dei ristoranti: tre si occupano di formazione, visitano i ristoranti, controllano e correggono, intervenendo, per esempio, in occasione del cambio stagionale del menu. In amministrazione è molto importante il lavoro del controller, in chiave di supporto a chi lavora nelle pizzerie.
La qualità è un modello replicabile?
Siamo convinti che la qualità si possa replicare, Berberè lo dimostra, a patto che si accetti qualche rinuncia: per esempio, a un po’ di margine e a una crescita impetuosa, che porta con sé non pochi rischi. Questo significa magari crescere più lentamente ma in maniera solida, aspettare con più pazienza i risultati e non mollare subito se non arrivano immediatamente. E si rinuncia anche alle frasi fatte: “Per stare in cucina bisogna avere passione” è, secondo me, una grande stupidaggine, perché la passione può anche crescere, ma sono più importanti dedizione e professionalità, da tutte e due le parti (datore di lavoro e lavoratore). Questo si traduce, tra l’altro, nel proporre contratti massimo di 40 ore e pagare gli straordinari quando c’è bisogno di farli. Insomma, programmare aziende che si fondano sulla loro forza non sulla più o meno disponibilità delle persone che chiami a lavorare.
Come immagina lo sviluppo di Berberè?
Vogliamo crescere, ma senza fretta. Diciamo che 2 o 3 nuovi locali all’anno potrebbero essere la giusta misura di uno sviluppo organico, come quello che ha caratterizzato questi anni. Ecco perchè abbiamo accolto con cortesia l’interessamento di qualche fondo intenzionato a investire nella ristorazione, ma senza andare oltre. Al momento siamo più che soddisfatti di quello che stiamo facendo.