La procura di Milano ha finalmente chiuso le indagini su Uber Italy, posta in amministrazione giudiziale lo scorso 29 maggio dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Milano su richiesta del pubblico ministero Paolo Storari, che aveva aperto un’indagine sul presunto sfruttamento dei fattorini della rete Uber Eats, che consegnano i pasti nelle varie città italiane, così come previsto dall’articolo 603 bis del codice penale. Un provvedimento realmente inedito in Italia e non solo che, per questo motivo, aveva suscitato molto scalpore tra gli addetti ai lavori e nell’opinione pubblica.
Si tratta, in realtà, di una chiusura parziale dell’inchiesta perché la posizione della società Uber Italy ai sensi della legge 231 del 2001 è stata stralciata e messa in stand by in attesa del 22 ottobre, quando si terrà l’udienza davanti ai magistrati delle Misure di prevenzione che dovranno verificare il lavoro fatto dalla società per scongiurare questa pessima pratica. Solo allora, è l’impressione che si raccoglie in procura, si capirà la sorte della società, la cui posizione potrebbe anche essere archiviata.
“UN SISTEMA PER DISPERATI”
Tra le 10 persone – nove fisiche e una giuridica – indagate spicca Gloria Bresciani, l’unica dipendente di Uber Italy a ricevere l’avviso di garanzia tra quelle che erano state oggetto di attenzione della procura. Nel febbraio del 2019 in una conversazione con un collega si esprimeva così nei confronti dei rider, spesso provenienti da zone conflittuali (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh) e pertanto in condizione di estrema vulnerabilità e isolamento sociale: “Peró ti prego, davanti a un esterno non dire mai più: ‘abbiamo creato un sistema per disperati’. Anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa e non fuori”. Con lei, in concorso per il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” sono risultati indagati Giuseppe e Leonardo Moltini, padre e figlio “intermediatori” della manodopera (700 fattorini circa) attraverso le società Flash Road Cifty ed Fcr (quest”ultima indagata ai sensi della 231) di cui erano amministratori, insieme a Danilo Donnini. Uber si sarebbe rivolto a queste società sollecitato dalle catene di ristorazione partner che preferivano avere un’unica controparte per la fatturazione dei propri servizi.
A loro la procura contesta una serie di comportamenti penalmente rilevanti nei confronti dei rider che vanno dalla paga di tre euro a consegna, indipendentemente dalla distanza da percorrere, dal tempo atmosferico o dalla fascia oraria alle “punizioni” attraverso una arbitraria decurtazione (c.d. malus) del compenso pattuito, qualora i rider non si fossero attenuti alle disposizioni impartite. Anche le mance lasciate spontaneamente dai clienti venivano loro sottratte ed erano sanzionati attraverso la arbitraria sospensione dei pagamenti dovuti a fronte di asserite mancanze lavorative, nonché “depauperati” delle ritenute d’acconto che venivano operate, ma non versate ed infine estromessi arbitrariamente dal circuito lavorativo di Uber attraverso il blocco dell’account a fronte di presunte mancanze. “In tal modo” scrive il pm nel suo atto, “i rider venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber”.
GIRANDOLA DI FALSE FATTURAZIONI
Grazie a questa indagine sullo sfruttamento dei lavoratori, la procura e la guardia di finanza hanno anche scoperto un sistema di false fatturazioni che avrebbe consentito alla Flash Road City, una delle due società di intermediazione di manodopera finite nell’inchiesta, di evadere le imposte sui redditi e l’Iva. Una frode che ha consentito un’evasione per oltre 200 mila euro grazie all’appoggio di altre società che si prestavano all’emissione di fatture false i cui amministratori sono ora indagati per reati fiscali.
La moglie di Giuseppe Moltini, Miriam Gilardi, risulta infine indagata per favoreggiamento perché cercava di far sparire da una cassetta di sicurezza 305 mila euro in contanti che erano stati precedentemente depositati ed erano frutto dei reati ipotizzati dalla procura.
Eventuali profili fiscali in capo a Uber non sono stati, al momento, presi in considerazione dagli inquirenti. In questo caso le indagini potrebbero dirigersi nel senso di verificare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia che abbia funzioni e competenze più ampie e diverse rispetto a quelle “ufficiali” di Uber Italy.
UBER: “COLLABORATO CON LE AUTORITÀ’”
Uber non ha voluto commentare ufficialmente la posizione della sua dipendente indagata, limitandosi a ricordare in una nota il lavoro fatto in questi mesi per tornare nella normalità. “Negli ultimi mesi abbiamo lavorato a stretto contatto con l’amministratore giudiziario per rivedere e rafforzare ulteriormente i nostri processi. Continueremo a collaborare con le autorità e a combattere tutte le forme di intermediazione illegale” ha detto la società.
Lo afferma Uber Italy in una nota dopo la chiusura dell’inchiesta della procura di Milano.
Per Luigi Sbarra, segretario generale aggiunto Cisl, “l‘inchiesta dei rider, se confermate le accuse, è una drammatica conferma di quanto, fuori dai buoni contratti, il lavoro su piattaforma, come e più di qualunque altro, può trasformarsi in un luogo di sfruttamento e di vile abuso su persone in stato di bisogno. Contro le forme di nuovo caporalato digitale occorre aumentare controlli e ispezioni, e garantire in ogni azienda la piena applicazione del Ccnl Logistica siglato da Cisl, Cgil e Uil già nel 2017. Solo in questo modo si può superare la logica feroce del cottimo, assicurando le tutele necessarie ai lavoratori in termini di retribuzione, welfare, maggiorazioni salariali, diritto alle ferie, alla malattia e al Tfr”. Il tutto, perché, come ha ricordato anche la Coldiretti, i servizi di consegna di cibo a casa sono utilizzati ormai da quattro consumatori su 10 e hanno assunto quindi una dimensione di massa.