Docente universitario presso IULM e SDA Bocconi, esperto di economia e di gestione dei processi nel design, Antonio Catalani ha un passato nella ristorazione come socio (fino al 2019) di una holding a cui facevano capo tre brand del settore, tra cui la catena di hamburgerie Fatto Bene Burger.
Catalani ha dunque le carte in regola per indicare la strada da seguire a chi opera nel food e non solo dal punto di vista teorico, ma anche pratico. Ed è convinto che per gli imprenditori del cibo, a partire dagli indipendenti (le cui società non sono ancora diventate preda di fondi di private equity o entrate a far parte di gruppi industriali), ci siano ottime possibilità di crescita a patto che siano imprenditori veri, attenti alla marginalità e non solo ai fatturati, in grado di raggiungere l’eccellenza nel proprio ambito di lavoro.
Com’è cambiata la ristorazione dopo la pandemaia?
“Potrei rispondere, dicendo una cosa ovvia, che il principale cambiamento è l’importanza del digitale. In realtà, in un momento come questo, è vero tutto e il contrario di tutto. Essere presenti nelle principali piattaforme e disporre di canali social per comunicare con la propria clientela è certamente importante, ma al tempo stesso esistono ristoranti e realtà che rifiutano questi strumenti, continuano a lavorare con il passaparola e vanno ugualmente bene se non meglio. C’è un limite nella strategia legata al “gusto medio” ed è il fatto che non porta necessariamente al successo“.
E allora cosa porta al successo?
“Quel che conta non è seguire il mercato bensì esaltare le proprie competenze: se non ci sono, non si potrà mai essere eccellenti, e allora si finirà per basare la competizione sul prezzo. Inoltre, occorre tenere conto della piazza in cui si opera, perché determinate formule possono risultare quasi automaticamente vincenti a Milano ma non – per citare le due città che conosco meglio – a Firenze, dove l’impostazione è più tradizionale. Oltre alla città c’è poi un fattore che è sempre determinante: la location. Definisce il costo dell’affitto, ma anche il tipo di cliente ed il traffico. Il successo, pertanto, è una combinazione tra le competenze dell’imprenditore e il luogo in cui opera“.
Qual è il limite più presente nell’imprenditoria della ristorazione?
“Il primo è seguire le mode: apro l’ennesimo progetto legato al fast food, perché è una formula che funziona, e invece di esprimere la mia potenziale eccellenza finisco per misurarmi con chi ha un sistema organizzativo migliore e spalle più solide delle mie“.
“Il secondo è mettere al centro il successo del pubblico anziché il profitto. Nella ristorazione si pensa troppo ai ricavi e troppo poco ai costi, e il fatto che crescano i ricavi non significa che ci sia profitto. Per guadagnare occorre gestire con estrema attenzione anche i costi“.
Qualche suggerimento per ridurre i costi?
“Primo: analizzare il food cost, cambiando il menu in base all’offerta del mercato, alla stagionalità dei prodotti, recuperando le rimanenze, utilizzando metodi di cottura funzionali al contenimento dei costi di lavoro (per esempio gli arrosti e i bolliti, che tengono la cucina impegnata anche quando non ci sono clienti in sala)”.
“Secondo: mai trascurare gli ammortamenti degli investimenti effettuati, il che implica un utilizzo diverso delle attrezzature in cucina, ad esempio attraverso il noleggio nei momenti in cui il ristorante è chiuso oppure la creazione di un marchio di delivery per tenerle impegnate più a lungo“.
“Terzo: ridurre il numero di fornitori per realizzare economie con gli stessi“.
“Quarto: puntare su un prodotto particolarmente attrattivo, che consente da un lato l’acquisto di materie prime a un prezzo di favore (perché le quantità sono ingenti) e dall’altro la vendita a un premium price“.
“Quinto: migliorare il rapporto tra sala e cucina, perché una sala ben organizzata facilita il lavoro in cucina e di conseguenza si ottiene una massimizzazione del risultato“.
“Sesto: ridurre i menu, che sono eccessivamente ampi e comportano complessità in cucina e scarsa possibilità, da parte della sala, di orientare il cliente nella direzione più interessante per il conto economico del ristorante“.
Se lei fosse oggi un imprenditore della ristorazione su quale tipologia di ristorante investirebbe?
“Tutte le idee possono funzionare a condizione che ci siano le competenze necessarie e capacità di gestione. C’è tuttavia un target di clientela trascurato ed è quello delle famiglie. Oggi sembra che a cena vadano soltanto coppie, single, amici… E le famiglie con bambini? Un locale targetizzato su di esse ha ottime possibilità di successo ma per fare un locale dedicato alle famiglie non è sufficiente un menu per bambini, occorre molto di più: bisogna realizzare il locale avendo ben presente tutte le problematiche e tutte le necessità di una famiglia, partendo dall’ambiente“.
La tecnologia può rappresentare uno strumento per ottenere successo?
“Sì, ma tecnologia non significa soltanto comunicazione digitale e non si può basare esclusivamente nella gestione del rapporto con la clientela, anche perché molti clienti vanno laddove c’è lo sconto e quindi non diventeranno mai abituali. La tecnologia conta anche e soprattutto se diventa la base per svolgere serie analisi sul food cost e sulla creazione di marginalità. E conosco ben pochi ristoratori che ne fanno questo uso“.
In conclusione, il ristoratore deve diventare sempre più manager/imprenditore. E se anche lo diventasse, c’è spazio oggi sul mercato per un’impresa di ristorazione indipendente?
Lo spazio c’è, perché ogni format ha il limite della standardizzazione. McDonald’s o Domino, per citare due importanti esempi di standardizzazione, hanno difficoltà talvolta ad esprimere il proprio livello di qualità in termini di percezione del cliente finale. Di conseguenza, l’indipendente dovrà essere percepito dal pubblico come eccellenza nel proprio ambito e dovrà essere in grado di raccontare al meglio quel che offre, partendo da competenze forti e agendo anche come formatore del cliente.
E le risorse economiche da investire? Dove si possono trovare?
“Se parliamo di imprese familiari già avviate, le risorse dipendono dalla capacità di creare profitto che va reinvestito nell’attività, superando il vecchio schema di “famiglia ricca impresa povera”. Se parliamo di startup, occorre far bene i conti prima di partire e se il modello rende, trovare il finanziatore non sarà un problema“.