La Direttiva Europea sui rider, ratificata dai 27 stati membri e in discussione presso la Commissione e il Parlamento europeo dallo scorso 12 giugno, promette di portare una vera rivoluzione nella Gig Economy. Ma è davvero così?
I pro
Il punto focale della direttiva è l’inquadramento dei rider come dipendenti e non come autonomi. Per far ciò è necessario che il rapporto di lavoro presenti tre dei seguenti criteri:
- Limiti massimi sulla quantità di denaro che i lavoratori possono ricevere;
- Restrizioni sulla loro capacità di rifiutare il lavoro;
- Regole che ne disciplinano l’aspetto o il comportamento;
- Vincoli sull’orario di lavoro, le vacanze o il trasferimento a terzi dell’impegno lavorativo;
- Limiti alla possibilità di allargare la clientela.
Al soddisfacimento di detti criteri, verrà applicata una sorta di presunzione di subordinazione, con il datore di lavoro a cui spetterà l’onere di dimostrare che non esiste alcun rapporto di lavoro. Ed è proprio su questo punto che la CGIL in Italia nutre alcuni dubbi.
La posizione di Cgil
“Si tratta di criteri che sono facilmente aggirabili dalle piattaforme, e che anzi in alcuni casi sono stati già aggirati – spiega Nicola Marongiu, Coordinatore dell’area contrattazione Cgil al portale Collettiva -. Faccio un esempio: la società di delivery non stabilisce il compenso per la singola consegna (uno dei criteri fissati dalla Ue) e apre un’asta a cui partecipano i rider. Chi se la aggiudica, svolge l’attività sulla base dell’offerta che lui stesso ha presentato. Questo accade già in alcuni Paesi come la Spagna, che avevano introdotto restrizioni: le piattaforme che intendono continuare ad operare hanno liberalizzato ancora di più”.
Va da sé che l’iter di approvazione e promulgazione della direttiva europea sui rider richiederà del tempo e che poi sarà necessario un quadro normativo interno per ciascuno dei paesi membri