Identificata con l’acronimo ‘Mumbo’, multi unit/multi brand operator, in pochi anni Blooming ha saputo ritagliarsi un ruolo privilegiato nel comparto italiano del franchising, posizionandosi quale operatore affidabile per la crescita delle grandi insegne della ristorazione a catena, ma non solo. Se in ambito food spiccano i numerosi locali a marchio Burger King, che si sommano a diverse operazioni condotte nel tempo con brand del calibro di Alice Pizza e Rossopomodoro, Blooming è attiva anche con importanti marchi del non food, da Jean Louis David a Gruppo Miroglio. Davide Canavesio, Presidente e Ceo, racconta a Food Service il ruolo di Blooming sul mercato, descrivendo lo stato di salute del franchising in Italia.
Partiamo dai numeri. Come state performando in questo 2024 per la parte di ristorazione?
Relativamente al food registriamo un fatturato like for like sostanzialmente flat rispetto al 2023, forse con un +1 per cento. Speriamo, quindi, in una fiammata dei consumi nel mese di dicembre. Questo andamento, stabile, è il risultato dell’adeguamento dei prezzi all’inflazione e, di contro, di un leggero calo del traffico. L’incremento dei listini, deciso dalla casa madre, tiene conto dei numerosi rincari a cui abbiamo dovuto e dobbiamo tuttora fare fronte, in primis delle materie prime che sono sostanzialmente raddoppiate. In sintesi, dunque, il 2024 per noi è un anno di transizione.
Può raccontarci il trend di crescita del vostro fatturato dal 2017, anno della vostra prima apertura con BK, a oggi?
Attualmente il nostro giro d’affari è pari a circa 43 (34) milioni di euro. Siamo cresciuti tanto e velocemente se pensiamo che nel 2021 abbiamo totalizzato circa 10 milioni. Questo risultato è frutto sia di alcune acquisizioni sia di nuove aperture. Ovviamente non è realistico dire che il fatturato verrà quadruplicato anche nei prossimi tre anni, ma, per esprimere la nostra predisposizione alla crescita, questa è insita nel gerundio che determina il nome stesso dell’azienda: Blooming. Per cui siamo sempre alla ricerca di marchi e opportunità. In generale, in questi anni abbiamo costruito una struttura funzionale a lavorare con i grandi brand, per cui non è importante che i capex siano considerevoli o meno ma lo è il fatto che dietro al brand ci sia una struttura consolidata che lavora sulle operation e che innova continuamente.
Quali sono state le vostre ultime e quali le prossime aperture in ambito food? Con quali insegne?
Sul tema food, ci concentriamo per fare aperture con Burger King. Quest’anno lavoriamo sia su potenziali relocation sia sulla pipeline 2025. Crediamo molto nel marchio BK, che peraltro ha un piano di crescita importante, come manifestato dalla company italiana, che noi vogliamo accompagnare. Sempre nel 2025, se ci sarà l’opportunità apriremo anche con il marchio Popeyes (brand di quick service di pollo, parte del colosso americano Rbi, ndr), di cui, puntualizzo, non siamo il master per l’Italia. Infine, ci stanno contattando altri brand food, e non soltanto, che non posso ancora comunicare perché siamo in fase di trattativa e/o di valutazione di opportunità. Per i prossimi dodici mesi, a partire dalla metà dell’anno, immagino complessivamente quattro o cinque nuove aperture e l’avvio di ulteriori partnership.
Come vede, invece, l’andamento del comparto della ristorazione a catena e del franchising in Italia? È ottimista sulla fine dell’anno in corso e soprattutto sul 2025?
Le rispondo su tre punti. Nel breve periodo confido in un parziale recupero dei consumi, dato che poco alla volta il potere di acquisto sta crescendo e dato che, anche nel 2024, il settore della ristorazione ha dimostrato una forte resilienza. Sul 2025, colmato il gap tra salari e inflazione, penso che la ristorazione possa arrivare a totalizzare anche un +5 per cento. Infine, nel medio e lungo periodo vedo grandissime opportunità: il 10-12% di penetrazione delle catene, rispetto a una media europea del 30%, dimostra che il nostro Paese è ancora un filo indietro e che dunque potrà crescere e recuperare. Inoltre va spezzata una lancia in favore delle catene, che spesso vengono bistrattate: io credo che il consumatore, nella grande maggioranza dei casi, cerchi una soluzione che gli garantisca in primis affidabilità e coerenza in termini di prodotto e customer experience. E su questo le catene possono esprimere un forte valore aggiunto.
In ambito ristorazione, si sta dilatando il tempo di recupero sugli investimenti? Se sì, in che misura questo fattore inficia sui vostri business plan e sulla vostra capacità di drenare risorse finanziarie dal mercato?
Il payback period è passato da una media di quattro-cinque anni a sei-sette. E questo non per colpa dei brand ma perché i costi, soprattutto quelli di costruzione, sono aumentati del 50% a fronte di margini che non sono cresciuti altrettanto. Tale dinamica non è necessariamente negativa per le aziende strutturate che guardano al lungo termine, ma comporta maggiori difficoltà per chi fa leva sull’autoimpiego. Tutto ciò ha inciso tantissimo anche su di noi, che non siamo più una small company e che quindi non beneficiamo più di determinate garanzie. Di conseguenza, ci siamo rivolti al private debt per i progetti importanti, in quanto è uno strumento che consente di strutturare operazioni sì onerose ma collegate al business plan; mentre le banche hanno dei prodotti con dei paletti, per cui non possono customizzarli sulle necessità degli operatori. A fronte di ciò, abbiamo dovuto rallentare un po’ lo sviluppo e condurre anche un’attività di razionalizzazione, per focalizzarci sui brand dove vediamo maggiori opportunità di crescita.
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