Niente consegne di pranzi e cene, niente corse all’impazzata in giro per la città. Venerdì 26 marzo i rider italiani incrociano le braccia, dando vita a uno sciopero per chiedere un riconoscimento adeguato del loro status lavorativo e un trattamento equo da parte dei loro datori di lavoro.
Lo sciopero delle consegne a domicilio è destinato a coinvolgere “più di 20 città italiane“, assicura la sigla che ha proclamato la protesta, vale a dire RiderXiDiritti: “Ci fermiamo da Milano a Bologna, da Napoli a Trieste, da Firenze a Carpi, da Genova a Messina, da Reggio Emilia a Brindisi”. L’elenco é contenuto in una lettera aperta che i rider rivolgono in particolare ai consumatori.
APPELLO RIVOLTO DIRETTAMENTE AI CONSUMATORI
“Abbiamo bisogno del vostro supporto, il 26 non ordinate“. Da anni “stiamo lottando affinché siano riconosciuti i nostri diritti”, spiegano i ciclofattorini, ricordando che “ci troviamo in una situazione paradossale, sempre più diffusa nel mondo del lavoro contemporaneo: siamo pedine nelle mani di un algoritmo, siamo considerati lavoratori autonomi; siamo inseriti in un’organizzazione del lavoro senza alcun potere, ma non siamo considerati lavoratori dipendenti dai nostri datori di lavoro“.
Ma anche se ormai “è sotto gli occhi di tutti“, prosegue la lettera, “il lavoro autonomo è solamente un espediente: consente a multinazionali feroci di non rispettare i contratti e di non riconoscerci tutele quali ferie, malattia, tredicesima, quattordicesima, Tfr, salari certi in base ai minimi tabellari e non variabili in base al ricatto del cottimo“.
IL RIFERIMENTO ALLE SENTENZE CONTRO LE PIATTAFORME
In tutta Europa, però, i tribunali “stanno riconoscendo la verità: il nostro è un lavoro subordinato. Anche il tribunale del lavoro di Palermo, nel primo grado di giudizio“, si spiega ancora nella lettera, “si è mosso in questa direzione. Un’altra sentenza della Corte di Cassazione ha riconosciuto che ci devono essere applicate le tutele del lavoro dipendente“. Così come il tribunale di Milano “ha fatto luce su casi palesi di caporalato dentro Uber Eats“, mentre i giudici di Bologna hanno riconosciuto “che l’algoritmo è un dispositivo discriminatorio nei confronti dei lavoratori“.
La procura di Milano, poi, “ha recentemente ribadito che il tempo dello schiavismo deve finire, scrive ancora RiderXiDiritti, “e deve cominciare quello di un lavoro che riconosca tutti i diritti di cittadinanza; ha per questo comminato maxi-multe per centinaia di milioni di euro alle aziende, intimando loro di assumerci e riconoscerci tutele piene“.