«Non credete a nulla di quello che vi ho detto»: si conclude così, con una provocazione in sintonia con il personaggio, l’intervista ad Armando Zappalà, amministratore unico di This is not a Sushibar. La battuta dell’imprenditore sottende, in realtà, un messaggio forte: occorre sperimentare sempre, mettersi in gioco, non dare mai nulla per scontato, passare dalla teoria alla pratica senza timore di “sporcarsi le mani”. “Unconventional” sin dalla scelta del brand, che volutamente la distingue dai classici sushibar disseminati ormai in tutta Italia, la catena è stata fondata nel 2007 da un gruppo di amici che avevano scommesso su un format originale.
Da subito, anche se doveva ancora vivere il boom che lo vede oggi protagonista del retail food, il delivery è stato individuato come strumento di differenziazione. In questi ultimi anni, alcuni passaggi societari hanno portato all’attuale compagine societaria, che vede Armando Zappalà nelle vesti di amministratore unico, affiancato da un pool di family & friends guidato da Mega Holding SpA. Oggi la catena conta cinque punti vendita dislocati strategicamente a Milano tra Porta Venezia, Pagano, Porta Romana e Navigli. Zappalà ci racconta il posizionamento e gli obiettivi del format, allargando l’analisi sui “fondamentali” della professione e sullo stato dell’arte di un settore che vive un’evoluzione non sempre razionale.
Partiamo proprio dal momento che sta vivendo la ristorazione veloce in Italia…
Il settore vive un periodo di grande fermento, ma pochi hanno la competenza e l’umiltà di ammettere che cibo e vino sono molto diversi dall’abbigliamento e hanno logiche proprie. Il mercato è alla ricerca di novità, ma devi conoscerlo approfonditamente: occorrono competenze specifiche, che non si possono inventare e non è facile individuare. C’è un altro prerequisito per creare successo: avere una visione d’insieme di tutte le funzioni e i processi. Si può possedere il format più bello del mondo, ma se non si gestisce in maniera organica finance, marketing, controllo di gestione, approvvigionamenti, risorse umane, si è destinati a fallire. Un progetto funziona davvero quando, una volta creato il format, si sono messi in ordine i processi e la “macchina” va avanti da sé, senza l’intervento dell’imprenditore. Un’altra cosa che conta moltissimo è la capacità di fare squadra, ma bisogna credere davvero in quello che si fa ed essere coerenti nel portare avanti un progetto.
A cosa si deve la scelta di un nome che è innanzitutto una dichiarazione molto netta?
“Noi non siamo un Sushibar” è un’affermazione scherzosa, fatta apposta per distinguerci, ammettendo che quel genere di cibo è storicamente appannaggio dei giapponesi. Anche da noi, per la verità, trovi sushi, sashimi e ricette tipiche, ma ci concediamo la piccola libertà di mettere nei menu piatti che altri non hanno o di inventarci nuove proposte: abbiamo introdotto il poke, quand’è uscita la serie Game of Thrones abbiamo lanciato una ricetta che si allineava al mood della serie tv. Insomma, cerchiamo di sdrammatizzare quello che per i giapponesi è un vero e proprio mantra: per questo ci definiamo “unconventional sushi per unconventional people”. Non a caso, i best seller sono i prodotti più particolari: la gente ha voglia di sperimentare. Tanto che mi piacerebbe implementare una collaborazione con uno chef italiano, magari stellato, che ci aiuti a creare innovazione vera sul prodotto. E lo troverò!
Qual è l’unconventional people al quale vi rivolgete?
Ci frequenta un cliente che ha voglia di vivere un’esperienza d’acquisto importante. Per questo ci impegniamo affinché chi compra da noi si senta coccolato. Riusciamo a fare un prodotto di un certo tipo con tempi molto veloci. Usiamo macchine che ci aiutano nell’execution: tecnologie avanzate per migliorare i processi.
Venite ancora scelti soprattutto per il delivery e il take away?
I fondatori hanno avuto la lungimiranza di comprendere che il delivery avrebbe avuto un forte sviluppo. Il primo negozio aveva sette posti a sedere e puntava tutto sul delivery. Poi quel modello si è evoluto rapidamente, sono arrivati giganti del calibro di Amazon, Glovo, Deliveroo, tutte aziende eccellenti, con milioni di euro investiti in IT e sviluppo di competenze. Oggi il mercato del delivery è in costante evoluzione anche perché tutti i player sono diventati competitor. Quanto a noi, sviluppiamo ancora l’ 80-90% del fatturato con il take away e le consegne. Il cliente può fare l’ordine sulla nostra app proprietaria o appoggiandosi agli operatori attivi su Milano: ovvio che, nel primo caso, è possibile fornire un servizio molto più personalizzato, cogliendo esigenze e problemi e rispondendo rapidamente con un approccio customizzato, che crea fidelizzazione.
Quali sono le location ideali per This is not a Sushibar?
Il format va bene laddove c’è molto passaggio perché consente di servire il cliente velocemente con uno spazio molto ridotto, o in zona ad alta densità di popolazione residente e gravitante. Centro città a parte, immagino dunque aeroporti, stazioni, centri commerciali, navi da crociera. Va detto che non si può andare ovunque, occorre avere un target medio-alto: il nostro scontrino è mediamente più elevato rispetto a quello degli altri delivery. Il nostro consumatore digitale consuma meglio, è esigente, ha una forte consapevolezza del prodotto: la qualità è un prerequisito, il riso dev’essere perfetto, al pari delle materie prime. Tutta l’esperienza d’acquisto va presidiata al meglio.
Come si configurano i vostri locali?
Si tratta di punti vendita diretti, di dimensioni piuttosto ridotte. Due sono gli hub che fanno il delivery: vi operano un cassiere, due sushiman e due consegnatori; gli altri tre sono negozi “spot”, con due operatori in media. Selezioniamo ragazzi che abbiano vocazione, sappiano sorridere e trasmettere i valori dell’azienda. Il bassissimo turnover ci dimostra che, grazie alla trasparenza su cui fondiamo il nostro modo di fare impresa, la strada che stiamo seguendo è quella giusta.
Qualche anticipazione sui progetti futuri?
Ci stiamo dando un’organizzazione differente dopo il cambio societario, valutando anche opportunità di rebranding del marchio. In questo senso, ci stanno aiutando anche gli amici di “Chef in camicia”, una partecipata dei nostri investitori, che si è inventata un modo originale di creare contenuti e valore per i brand che hanno voglia di emergere nel mondo social e non solo.