È diventato il paladino e portavoce della più grande protesta da parte della ristorazione che, a memoria, si ricorda in questi ultimi decenni. Paolo Polli, milanese, 54 anni, guida Movimento Horeca, un gruppo di ristoratori che ha deciso di portare avanti la ‘rivolta’ pacifica di molti esponenti del fuori casa che si sentono dimenticati dalle istituzioni.
Per attirare l’attenzione, dallo scorso 6 maggio, ha posizionato delle sedie vuote nella piazza dell’Arco della Pace di Milano. Una dimostrazione simbolica salita subito alla cronaca anche per l’intervento della Digos che ha deciso di multare (400 euro a testa, ndr) chi, quel giorno, ha partecipato al sit-in.
Ma le sanzioni non hanno dissuaso Polli a proseguire la protesta. Proprietario di tre locali (tra cui le pizzerie Ambaradan, Ambaradan Sicilia, e la birreria BQ), l’imprenditore lombardo ha, è il caso di dirlo, messo le tende nella piazza meneghina, dove è accampato da una decina di giorni. In tenda, infatti, dorme, concedendosi una sola pausa al mattino presto per andare a casa a lavarsi. Poi di nuovo in piazza, circondato dalle sedie e dalla solidarietà di alcuni milanesi che passano di lì.
La speranza è che l’eco mediatico della sua iniziativa possa smuovere qualcosa nelle istituzioni politiche. I ristoranti, pub, locali, hanno bisogno urgentemente di aiuti economici, ma anche una revisione della linea guida sulla distanza che, seppure ridotta a un solo metro, è considerata penalizzante per gli esercenti. L’intento è poi quello di allargare la protesta anche ad altre categorie di lavoratori in difficoltà, come ci ha raccontato lo stesso Polli in questa intervista.
La protesta è diventata il simbolo della crisi del settore ristorativo. Prosegue da oltre dieci giorni. Ora cosa chiedete alle istituzioni?
Innanzitutto, di rivedere subito la linea guida indicata dall’Inail-Iss e poi modificata dallo Stato e dalle Regioni, che obbliga noi ristoratori a tenere tavoli e clienti a una metro di distanza l’uno dell’altro.
E voi che distanza proponete?
Riteniamo che l’unico metodo da applicare sia quello del buon senso. La gente ha capito come si trasmette il virus, quindi deve fare in modo di mantenere consapevolmente quella giusta distanza. Porre l’obbligo di rimanere separati di un metro prevede il rischio di incorrere in sanzioni a carico dell’esercente se un cliente non rispetta questa regola. In questo momento fare pagare multe ai ristoratori sarebbe davvero una scelta scellerata. Ma poi mi chiedo: come fa uno chef a stare a un metro da chi lavora con lui in cucina, soprattutto se questa è di dimensione ridotta?
Ha citato il buon senso dei clienti…quante persone in questi giorni sceglieranno di tornare al ristorante?
Spero molti, ma non sarà facile riconquistare la clientela. Tra le persone regna ancora molta paura. Il Covid, per di più, ha reso più poveri gli italiani, oltre al fatto che alcune città, come Milano, hanno perso i turisti che erano la fonte principale di guadagno per il settore Horeca. Per questo ribadisco che la nostra protesta coinvolge tutti: dal ristoratore più piccolo al più grande, stellato o non stellato che sia.
C’è poi la questione dei costi fissi che gravitano sulla vostra attività…
Anche qui la situazione è disarmante e rimane blanda. Chiediamo che alcune tasse siano sospese, ridotte o cancellate, altrimenti non ce la facciamo. Un esempio: la Tari sulla spazzatura non può essere richiesta al 100%, dopo tutti questi mesi di lockdown. Applichiamola in modo proporzionale.
Cosa pensa della scelta di agevolare l’uso di spazi esterni ‘esentasse’?
È sicuramente una decisione positiva, ma temiamo molto la lunghezza burocratica. Ci hanno promesso che il permesso di usare il dehor arriverà dopo 15 giorni, speriamo sia così e non si debba attendere altro tempo. C’è poi la questione del costo dei materiali per garantire al cliente un servizio adeguato all’esterno. Ci fosse un fondo perduto tutto sarebbe più gestibile. I materiali per allestire un dehor hanno dei costi, auspichiamo che vengano coperti dallo Stato.
Il delivery ha funzionato?
È una piccola soluzione, ma rimane un palliativo. Se si lavora con le piattaforme di consegna a domicilio, il guadagno alla fine è irrisorio. E poi, non sempre questo servizio funziona per determinati piatti. Per me che ho due pizzerie va bene, così per chi cucina sushi, ma per i ristoranti che preparano ricette più articolate, come un risotto alla milanese o un secondo piatto di carne, il trasporto in delivery è un rischio e mette a repentaglio la qualità del piatto.
Lei quanti dipendenti ha? Sono ora in cassa integrazione?
Ne ho circa una ventina. Non sto ancora usufruendo di nessun tipo di ammortizzatore sociale, nonostante la mia richiesta sia stata inviata a metà aprile. Fino a ora i ragazzi che lavorano per me li sto pagando di tasca mia. Qualcuno di loro ha ripreso a lavorare, dato che oggi (18 maggio per chi legge) ho riaperto la pizzeria Ambaradan. Gli altri miei locali rimangono chiusi, in attesa di capire quello che succederà.
Ha intenzione di promuovere un nuovo flash mob?
Mi farebbe piacere coinvolgere anche altre categorie di lavoratori in grossa emergenza. Più siamo ad alzare la voce della nostra disperazione, più speranze abbiamo che qualcuno ci ascolti e dia via libera a reali interventi di sostegno.
Le multe che avete ricevuto il primo giorno di protesta le avete pagate?
No, e siamo ben intenzionati a contestarle. È stato un gesto increscioso e spero che non si ripeterà perché non ha davvero senso prendersela con chi protesta per sopravvivere.