Il bisogno aguzza l’ingegno. E in un mondo stravolto dalla pandemia, in cui le parole chiave sono diventate “resilienza” e “piano B”, i gestori degli hotel hanno deciso di colmare il gap lasciato dall’impossibilità di mangiare al ristorante trasformando le camere vuote in sale da pranzo private. Ne parla Allie Volpe su Eater, citando diverse esperienze avviate negli Stati Uniti, tra cui quella di Uni, un izakaya all’interno dell’Eliot Hotel di Boston che dallo scorso novembre ha deciso di affiancare ai servizi di asporto e delivery anche la possibilità di cenare in una delle suite room dell’albergo, con un massimo di sei persone e una permanenza limitata a 90 minuti. La risposta dei clienti è stata più che positiva: «Non ci sono particolari evidenze del fatto che cenare in questa modalità sia sicuro, ma è quanto di più simile all’esperienza tradizionale, pre-Covid. E quindi ci piace», racconta un habituè del locale.
CENA IN SUITE
E anche per gli alberghi, questa strategia rappresenta un sostegno non indifferente alla crisi che il settore sta attraversando: secondo l’American Hotel and Lodging Association l’occupazione media delle stanze negli Stati Uniti nel 2020 è stata del 44%, contro il 66% del 2019. Da qui l’idea di reinventare una modalità di occupazione delle stanze vuote, a vantaggio dei clienti privati dell’esperienza della cena al ristorante: all’Eliot Hotel sono 14 le suite occupabili contemporaneamente, il menu alla carta è esclusivamente digitale e le portate vengono servite in una sola volta da camerieri che adottano ogni precauzione, così da ridurre al minimo i contatti con la clientela. Dalle stanze prescelte per ospitare i clienti vengono rimossi i letti sostituiti dai tavoli, le sveglie sui comodini trasmettono musica in filodiffusione e ci sono bottiglie e bicchieri di sake a disposizione per il fine pasto sui tavoli e nei frigo bar.
DUE TURNI E STANZE SANIFICATE TRA UN SERVIZIO E L’ALTRO
Al Crossroads Hotel di Kansas City, invece, a descrivere i piatti in menu sono video pre registrati che scorrono sugli schermi LCD posizionati in ogni stanza e in altre realtà le camere confinanti sono state trasformate in sale di preparazione del cibo e impiattamento. A seconda della policy adottata dall’hotel, ogni sera viene avviato un solo turno o al massimo due, così da consentire una completa sanificazione degli ambienti.
DIATRIBA SULLE REGOLE
Al netto dei riscontri positivi, tuttavia, un grande punto di domanda aleggia sulla possibilità di replicare l’esperienza altrove: le stanze di albergo, in questo caso, vanno considerate come abitazioni private? O dovrebbero sottostare alle regole applicate ai ristoranti? Al momento, il rispetto o meno di alcune norme è lasciato alla volontà individuale. Branden McRill, fondatore di Fine–Drawn Hospitality e titolare del Walnut Suite Cafè di Filadelfia, per esempio, ha deciso di sfidare le regole imposte dal Governatore dello Stato sostenendo: «Se un cliente del Four Seasons Hotel ha la possibilità di ordinare il servizio di room service, non si riesce davvero a comprendere perché non si possa offrire lo stesso tipo di esperienza a clienti che, entro l’orario del coprifuoco, tornano nella propria abitazione».
UN MODELLO DI BUSINESS ANCHE PER IL NEW NORMAL?
Esperienza che, nelle parole di un cliente che l’ha provata, continuerebbe ad essere appealing anche a pandemia finita: «I ristoranti in genere sono troppo affollati, chiassosi, con un livello di servizio a volte non ottimale. In questo caso, ti senti importante, speciale, coccolato. Se anche l’emergenza sanitaria finisse, mi piacerebbe poter continuare a vivere il mio ristorante preferito in questa modalità, anche se fosse necessario spendere un po’ di più».