La rabbia, mista all’impotenza, sembra essere il sentimento prevalente all’interno di un settore, la ristorazione, fiaccato da un anno di Covid-19. Eppure, tra le pieghe di una protesta che pare battere i pugni contro il muro, c’è spazio anche per la generosità e il pensiero a chi attraversa difficoltà persino superiori. Si chiama solidarietà ed è lo spirito che anima da un anno esatto, il 20 marzo 2020, il progetto Cucine Solidali, iniziativa che racccoglie 20 ristoranti torinesi impegnati a fornire pasti a chi non può più garantirseli da solo.
OLTRE 50 MILA PASTI DISTRIBUITI IN UN ANNO
In un anno sono stati oltre 50 mila i pranzi e le cene destinati agli ospiti della mensa dei Frati minori, ai senzatetto della Comunità di Sant’Egidio e agli asili notturni Cts di Torino. In mezzo, svariati lockdown, più o meno rigidi, e un viavai di aperture e chiusure che ha portato centinaia di attività sull’orlo del collasso. Eppure, in un anno che ha messo a dura prova la serenità e i nervi di tutti, nessuno dei 20 ristoratori che hanno inizialmente aderito al progetto ha voluto fare un passo un indietro.
PASTI PREPARATI A ROTAZIONE DA 20 RISTORANTI
Lo sottolinea, con orgoglio e soddisfazione, Andrea Chiuni, executive chef dei ristoranti Tre Galline, Tre Galli e Carlina Restaurant and Bar, promotore del progetto e coordinatore di un servizio che pare ormai un meccanismo ben oliato. “Ci siamo organizzati in modo da ruotare indicativamente ogni due settimane“, spiega Chiuni a Food Service, “mi occupo personalmente dei turni. Ogni ristorante di Cucine Solidali sa quando tocca a lui preparare i suoi 100-200 pasti quotidiani ed è un impegno meno gravoso di quanto si possa pensare“.
LE DONAZIONI CONTRIBUISCONO ALLE SCORTE
Le materie prime provengono in parte dalla spesa effettuata dagli stessi ristoranti, principalmente per quanto riguarda i prodotti freschi, in parte dalla generosità delle donazioni esterne di chi, in 365 giorni, ha avuto modo di conoscere la bontà e l’efficacia del progetto. Non semplice, si potrebbe pensare, investire in risorse destinate ai bisognosi in assenza di incassi concreti e col miraggio di ristori che faticano a contenere le perdite di mesi con le serrande abbassate.
“In realtà, i costi si aggirano sui 50 euro ogni 100 pasti, dato che le scorte accumulate grazie a chi ci ha dato una mano ci consentono di avere una buona base di partenza”, spiega il coordinatore di Cucine Solidali. Non solo, la produzione di pasti per le mense cittadine permette di evitare gran parte degli sprechi inevitabilmente causati da una programmazione sempre più complessa per i ristoranti alle prese con i continui stop and go. “Sappiamo che le richieste alle mense sono aumentate a dismisura col Covid e crediamo che il nostro sia un impegno di cittadinanza attiva che merita di essere portato avanti“.
UN’INTEGRAZIONE AL PARADIGMA DI SLOW FOOD
Nel “manifesto” di Cucine solidali si fa espressamente riferimento a una gastronomia “etica e sostenibile“ e a spiegarne il significato è lo stesso Chiuni. “Siamo cresciuti professionalmente nel rispetto del modello di sostenibilità tramandato da Slow Food. Al quale, però, oggi crediamo sia necessario aggiungere un ulteriore tassello. D’accordo sul cibo, buono, pulito e giusto, ma crediamo che, prima ancora, questo stesso cibo vada utilizzato e debba raggiungere il maggior numero possibile di persone“. Per questo lo sforzo messo in campo è stato quello di riservare prodotti di filiera garantita anche chi non può permettersi ristoranti di qualità superiore, ma non per questo non ha diritto a un’alimentazione sana.
UN MODELLO PER IL POST PANDEMIA
Nel corso di un anno, la struttura di Cucine Solidali ha saputo rimodularsi in base all’attività effettivamente svolta dai ristoranti. “Non è stato semplice coordinare la normale ristorazione durante le brevi riaperture, ma nessuno ha mai fatto pesare questo piccolo impegno supplementare. E, paradossalmente, la preparazione dei pasti per le mense ha permesso di tenere impegnati i lavoratori che da un anno si trovano in cassa integrazione“. L’auspicio resta quello di vedere crescere iniziative simili nel resto d’Italia, ma anche, chissà, di introdurre un modello diffuso di ristorazione che possa tendere la mano a chi è più in difficoltà. D’altra parte, se si è riusciti a farlo in tempo di pandemia, perché non replicarlo quando tutto sarà finalmente finito.